Sono preoccupanti o tragiche le notizie che hanno accompagnato il passaggio dal vecchio al nuovo anno. Dal rifiuto del Brasile ad estradare Cesare Battisti, alle stragi di cristiani avvenute in Africa e nel Medio Oriente. Un panorama a tinte fosche, di fronte al quale esponenti di primo piano del governo Bossi-Tremonti e Berlusconi non hanno trovato di meglio che rispondere con “la cena degli ossi”. Appuntamento che, vuoi per la banda dei commensali, vuoi per le pietanze servite, meglio si sarebbe potuta definire come “la cena del buco”.
Per fortuna nostra e di tutti gli Italiani, al Quirinale c’è un signore che di nome fa Giorgio Napolitano e di mestiere il Presidente della Repubblica.
E' toccatro a lui, mentre i predetti commensali discutevano come accompagnare il federalismo agli ossi e mandare a casa Berlusconi, affrontare i problemi di questo Paese nel tradizionale messaggio di fine anno. E a ben guardare, al centro del suo intervento, il Presidente non ha messo i giovani. Piuttosto il debito pubblico, la situazione economica, la riforma fiscale, Persino, fatto quasi inaudito di questi tempi per un uomo politico, il richiamo al dovere di pagare le tasse. Il riferimento ai giovani e alle loro difficoltà è servito a ricordare che sono e saranno loro i più colpiti dalle conseguenze devastanti di una politica da altre faccende distratta. Insomma, quindici minuti intensi di “supplenza” durante i quali ha toccato problemi del tutto ignorati dal Governo di Bossi-Tremonti e Berlusconi. Un governo dove la competizione tra chi vuole andare subito al voto e chi è intento ad acquistare nuovi parlamentari alla maggioranza, genera un caos primordiale. Ma in quei quindici minuti Napolitano ha nuovamente e ripetutamente indicato, quasi invocato, un metodo: il dialogo. Non perché sia un facile strumento di confronto. Ma perché, più i problemi sono complessi, le posizioni distanti e gli interessi contrapposti, più si rivela essere l’unico strumento in grado di evitare che una situazione deflagri. Lo aveva fatto al momento della promulgazione della tanto contestata legge di riforma del sistema universitario. Lo va dicendo sul “caso Fiat. Lo lascia trasparire in merito alla mancata estradizione in Italia di Cesare Battisti.
Del resto, se non con il dialogo, come affrontare problemi quali la crescente emergenza del rispetto della libertà religiosa nel mondo, in queste settimane esplosa con il massacro di molti cristiani, ma da tempo causa di lutti e discriminazioni per molte minoranze?
Dialogo che non è un ripiego per deboli o rinunciatari; semmai il metodo di chi si pone obiettivi di interesse comune e lo fa forte dei principi nei quali crede. Consapevole che all’essenza di essi non si potrà rinunciare.
Dialogo che va favorito a livello locale. Diverse comunità cristiane del Medio oriente vivono li da quasi venti secoli e da quattordici con l’Islam; in pace. E anche tra i musulmani c’è chi si oppone alla violenza: «Sono preoccupato per il futuro dei musulmani a causa dell'emigrazione dei cristiani d'Oriente. Conservare la presenza cristiana è un comune dovere islamico nonché un comune dovere cristiano». A pronunciare queste parole è un autorevole rappresentante islamico, Mohammed Al-Sammak, consigliere del Gran Mufti del Libano.
Dialogo che va perseguito a livello istituzionale. Del quale le diplomazie e gli organismi internazionali devono farsi carico. Con urgenza. Pur sapendo che difficoltà e ostacoli sono tutt’altro che banali. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950, affermano principi solo parzialmente condivisi dalla dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo del 1981 e dalla Dichiarazione del Cairo dei Diritti Umani dell'Islam nel 1990.
Ma il vero rischio è forse un altro: che l’occidente si faccia trovare impreparato a dialogare su questi temi. Incapace non solo di presentarsi con una voce sola, ma di avere qualcosa di significativo da dire. Come sembrerebbe emergere dalla pochezza delle recenti dichiarazioni di Catherine Ashton, Vice Presidente della Commissione Europea nonché Alto Rappresentante per gli Affari Esteri.
Il dialogo, allora, è innanzitutto una sfida con noi stessi. Una sfida che ci coinvolge come società. Precedendo il nostro essere credenti o non credenti.
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