Si può essere sovversivi chiedendo che le leggi vengano rispettate da chi ci governa (Ennio Flaiano)

giovedì 31 maggio 2012

Quale festa della Repubblica?

Che dalla rete si sia levata, corale e sincera, la richiesta di annullare la consueta parata militare per la Festa della Repubblica, non sorprende. Nè sorprende che alle moltissime richieste leali si siano mischiate, meno numerose, quelle "interessate" a sopprimere un segno di unità del Paese e di presenza delle sue Istituzioni.

Sorprende invece che, a tali richieste, si siano accodati pubblici amministratori; tra essi non pochi di centrosinistra.

Sorprende perchè chiunque abbia anche solo elementari nozioni di pubblica amministrazione sa che una tal macchina organizzativa può essere fermata, alla vigilia dell'evento, solo pagandone quasi per intero il costo. E conseguentemente poco o nulla si sarebbe risparmiato a favore delle popolazioni colpite dal terremoto.

Ma oltre la sorpresa rimane una domanda: come è possibile che dopo 66 anni dalla sua nascita una "Repubblica fondata sul lavoro" che "ripudia la guerra" non trovi miglior rituale per celebrarsi che una parata militare?

Ma questa, ahimè, sembra essere una domanda non particolarmente appassionante per il popolo del centrosinistra!

martedì 22 maggio 2012

The day after: la dura lezione delle amministrative

Poco più di 1000 comuni sugli oltre 8100 del nostro Paese; poco meno di 10 milioni di elettori. Non così poco, però, per qualche riflessione. Anche nella prospettiva delle politiche della primavera 2013, dalle quali ci separa ormai meno di un anno.

E’ stato detto, forse non a torto, che Grillo non può essere considerato una sorpresa: in fondo, da quasi vent’anni gli italiani votano comici e macchiette. La battuta è buona, ma sarebbe pericoloso fermarsi li. I risultati, pur previsti nel trend, sono clamorosi nelle dimensioni.

Il PdL non ha subito la sconfitta pur annunciata: è imploso. In gran parte delle realtà si è sostanzialmente dissolto. La Lega di Bossi ha perso persino Cassano Magnago, a casa del capo. A Monza è passata dal 20 al 7,5%; a Belluno dal 22 al 4,5. A Verona ha vinto Tosi, la Lega di Maroni. Già, la Lega di Bossi e quella di Maroni: due partiti, ormai al lumicino. Anche a Pierfurbi non è andata bene. Alla prima vera occasione, la sua UDC ha fallito l’obiettivo che persegue da sempre: raccogliere il consenso in uscita dal centrodestra.

Per fortuna, decisamente meglio è andata al centrosinistra e al PD in particolare che vince in 92 comuni e riconquista città e paesi da vent’anni amministrati da Lega e PDL. Ma si è trattato di un atterraggio morbido, di vittorie ottenute anche grazie a una riduzione dei consensi molto più contenuta che nel centrodestra.

In questo panorama, due sono i reali vincitori. Il Movimento 5 Stelle (M5S) di Grillo, che porta a casa “solo” 4 sindaci, ma raddoppia i consensi ottenuti alle regionali del 2010 e il “partito” degli astenuti, ormai prossimo al 50%. Grillo e astenuti hanno dato voce al grido di dolore, quando non di sdegno, che attraversa l’Italia alimentato dall’immobilismo, incredibilmente suicida, di un’intera classe politica. Come non ricordare le richieste che da mesi i cittadini rivolgono ai partiti che per anni hanno votato? Nuova legge elettorale, ristrutturazione del finanziamento pubblico mascherato da rimborso elettorale, trasparenza nei bilanci, eliminazione dei privilegi, riduzione del compenso di parlamentari e consiglieri regionali, limitazione del numero dei mandati. Richieste semplici, di buon senso, che la crisi attuale, prima che una sia pur limitata dose di etica, chiederebbe di accogliere senza esitazione. E invece, nulla. Scriviamo quando sono ormai trascorsi 45 giorni dal momento in cui i presidenti di Senato e Camera si sono impegnati a portare in aula una riforma del finanziamento pubblico dei partiti. 45 giorni perduti. Meglio, 45 giorni che hanno (giustamente?) ingrossato le fila dei grillini.

E sbagliano, a mio avviso, coloro che considerano il M5S solo un effetto ottico che raccoglie un voto umorale, qualunquista e antipolitico come le performances circensi del leader lascerebbero credere. Dietro quel successo c’è una crescente domanda di politica, insoddisfatta dai partiti tradizionali. Non lo prova solo la scelta dei parmensi che hanno preferito il giovane Pizzarotti a Bernazzoli, politico di lungo corso. Lo prova il fatto che Grillo non sfonda dove la politica “tradizionale”, di qualunque colore, riesce a mostrare una faccia che i cittadini percepiscono come credibile. E’ accaduto a Verona con Tosi e a Palermo con Orlando: due candidati diversi in tutto, (età, storia, provenienza politica e proposta amministrativa) ma ugualmente considerati non omologabili ai partiti tradizionali dall’elettorato locale. Ancora lo prova Genova dove Grillo ha ottenuto ottimi risultati con un candidato sindaco che non proviene certo dai centri sociali, ma dal mondo dell’impresa e del volontariato. Infine lo provano le molte vittorie locali ottenute da quei candidati PD che hanno saputo intercettare questa domanda facendo premio sulla possibile sfiducia verso il partito nazionale con la loro faccia e le loro storie personali.

La lezione è dura, la diagnosi non lascia scampo. I partiti tutti non hanno che due possibilità: ignorarla, aprendo così le porte del Parlamento a Grillo che nel 2013 prenderà milioni di voti ed eleggerà decine di deputati e senatori. Oppure voltare rapidamente pagina approvando, entro l’estate, una legge elettorale decente, una vera riforma del finanziamento pubblico e una sostanziale riduzione dei costi di parlamentari e consiglieri regionali.

Il PD è l’unico graziato dai cittadini in questa tornata amministrativa.

Un “di più” di fiducia che è al contempo un di più di responsabilità e una sfida. Il PD rimane l’unica organizzazione politica presente su tutto il territorio nazionale e pertanto è stato in grado di ottenere un risultato elettorale sostanzialmente omogeneo in tutte le regioni.

Adesso dobbiamo essere il motore di un ritorno della politica a servizio del bene comune, altrimenti rischiamo la sconfitta fra qualche mese o fra pochi anni. A livello nazionale non meno che a livello locale.

lunedì 7 maggio 2012

Sconfitte estreme, vittorie moderate

Trasferire linearmente sul piano politico il risultato delle amministrative, può essere improprio. Alcuni dati sono però clamorosi.

La nullificazione del PdL è di tali proporzioni da autorizzare l'ipotesi che Berlusconi sia scappato dall'Italia, più che andato a Mosca per festeggiare Putin.

A Verona Tosi vince ed elegge Maroni segretario federale della Lega,  stroncando brutalmente le mire di Bossi di rimettersi in corsa.  Poi si conferma anche sindaco.

L'UDC e il terzo polo tutto, spariscono nel nulla. A conferma che l'egocentrico Casini è emblema di miopia politica se paragonato al ben più responsabile Bayrou, divenuto determinante nella vittoria di Hollande.

La "protesta non votante" rappresenta spesso il primo partito del belpaese.
In scia, Beppe Grillo e il suo movimento raccolgono a piene mani la "protesta votante" contro un sistema partitico largamente impresentabile.  Ripercorrendo, in questo, la strada della Lega nel '92-'96 senza, peraltro, avere un progetto altrettanto chiaramente identificabile. A conferma che l'avversione contro i partiti è più radicale di 15-20 anni fa.

Il PD vince senza stravincere. Si propone come l'unica forza politica in grado di "tenere" a livello nazionale. Ma ottiene, insolitamente, migliori risultati al centro-nord.. In casi isolati, ma di grande rilevanza, conferma di avere una classe dirigente locale ampiamente al di sotto delle aspettative. Ma per sua fortuna, in quegli stessi casi, il PdL riesce a fare anche peggio.

Mario Monti è probabilmente l'italiano che dormirà il sonno più tranquillo, questa notte.

Ma anche il "celeste vacanziero" potrebbe addormentarsi senza ricorrere ai sonniferi.

Infine, che Muccino e Castiglion sappiano fare i sindaci, è ancora tutto da dimostrare.

venerdì 4 maggio 2012

Il voto dimenticato

C'è un voto dimenticato, in questo fine settimana. Che potrebbe interessare i destini dell'Europa in misura non così inferiore di quello francese. Sono le elezioni politiche che si tengono in Grecia.

Il Paese si trova nel mezzo di una profonda recessione con disoccupazione record, la chiusura di decine di piccole e medie imprese al giorno, suicidi e scontri in piazza. Il governo Papademos attualmente in carica è sostenuto dai conservatori della Nea Dimokratia e i socialisti del Pasok.

Tecnicamente in default, la Grecia ha già incassato la prima tranche del prestito europeo da 130 miliardi di euro. Ma i costi sociali sono altissimi. E la maggioranza dei greci sembra aver voltato le spalle ai suoi “salvatori”, i due maggiori partiti, che insieme appoggiano il governo Papademos, ma che sono gli stessi ad aver provocato la crisi, in anni di sprechi e corruzione.

I sondaggi dicono che il Pasok passerebbe dal 42,5% del 2009 al 10%, Nea Dimokratia dal 37 al 17%. In pratica, i due partiti maggiori, passerebbero dal 77 a meno 30%. La conferma di questi dati segnerebbe la fine del bipolarismo che ha governato la Grecia dalla caduta della giunta dei colonnelli, nel 1974, fino ad oggi. Il numero dei partiti che si sono registrati per prendere parte al voto -sono 36 a rappresentare posizioni che vanno dall'estrema sinistra alla destra filonazista- confermerebbe questa tendenza. Ma non è detto che la probabile sconfitta di Pasok e Nea Demokratia si trasformi in una vittoria delle forze politiche “anti-memorandum”, di destra o di sinistra. Se è vero che questo blocco di forze esprime la maggioranza dell’elettorato, è altrettanto vero che tra di loro – e questo riguarda soprattutto le sinistre – manca la volontà per un dialogo su una convergenza programmatica e quindi per una collaborazione post-elettorale. Certo è che un boom delle estreme comuniste e neofasciste creerebbe una situazione esplosiva.

Il rischio è quello che dalle elezioni esca un quadro estremamente frammentato. La Grecia entrerebbe in un lungo periodo d’instabilità politica, caratterizzato da governi di coalizione molto affollati. Ma i partiti che ne faranno parte non sembrano avere né la capacità, né tantomeno la cultura politica, per poter cooperare tra di loro per il bene del Paese. Per l'intera Europa si aprirebbe uno scenario da incubo: da una parte governi troppo deboli per attuare le misure ancora più devastanti sul piano sociale che Papademos ha sottoscritto; dall'altra la mancanza di interlocutori politico-istituzionali affidabili. In altre parole la Grecia tornerebbe ad essere una polveriera.

Sul piano economico il rischio che l'Italia diventi come la Grecia non è del tutto scongiurato. Su quello politico potrebbero esserci più similitudini di quanto non sembri ad una analisi superficiale.

Forse faremmo bene a riservare ai risultati delle elezioni in Grecia una attenzione non troppo dissimile di quelle francesi.

martedì 1 maggio 2012

A quel bar di piazza del Popolo


Agli inizi dei lavori dell’Assemblea Costituente, Giuseppe Dossetti si incontrò con Palmiro Togliatti in un bar nei pressi di Piazza del Popolo per discutere di quale avrebbe dovuto essere la “cifra”, cioè il dato di sintesi dei principi costituzionali.  Dopo un girare intorno al tema che non sembrava approdare ad un esito, fu proprio lui a rompere gli indugi e a proporre a Togliatti il valore del lavoro. La reazione dell’interlocutore fu del tipo: «Ma lei lo dice per compiacere noi». «No, non mi interessa compiacere voi – rispose di Dossetti – sono proprio convinto che il tema del lavoro debba essere centrale nella nuova Costituzione e possa rappresentare un punto di incontro fra posizioni culturali che per altri aspetti non sono facilmente conciliabili».
Si capisce allora come il lavoro sia diventato così importante da meritare due dei dodici articoli dei “Principi Fondamentali”, l’1 e il 4, e da ispirare buona parte del Terzo Titolo della Costituzione relativo ai “rapporti economici”.

Avere un giorno di festa condiviso non risponde solo al bisogno di riposo (tra l’altro funzionale alla stessa produttività del lavoratore), ma alla necessità umana di riconoscere e sottolineare motivi comuni per fare festa insieme: ricorrenze religiose, certo, ma anche festività civili, memorie di eventi che hanno segnato la storia di una società. Se viene a mancare il giorno di festa per tutti, la stessa coesione civile ne è intaccata, le leggi commerciali diventano più forti delle dimensioni conviviali e relazionali, delle famiglie, delle amicizie, delle esigenze spirituali non solo dei credenti, ma di quanti pensano e cercano vie di umanizzazione. E se non ci fosse questo simultaneo prendere le distanze dal lavoro e dedicarsi ai legami, come si potrebbe combattere l’isolamento, l’abbandono, la solitudine disperata delle persone più fragili, a cominciare dagli anziani e dai malati? Pensiamo forse che gli intrattenimenti massmediatici e virtuali possano sostituire le relazioni personali e proteggerle dall’impoverimento umano? Un giorno di tregua comune dal neg-otium valorizza, non svilisce, il valore costituzionale del lavoro.

Da alcuni anni invece, emerge sempre più la tendenza a lavorare anche di domenica, dapprima per non diminuire la produttività degli impianti e, ultimamente, per garantire l’apertura generalizzata di negozi e grandi magazzini. Oggi questa tendenza diventa una abitudine e si estende anche alle festività civili come quella del Primo Maggio.



Pur nella consapevolezza che il lavoro sta diventando una merce sempre più rara, osservo che ci troviamo di fronte ad un gioco pericoloso.


Un gioco che, a quel bar nei pressi di piazza del Popolo, Dossetti e Togliatti avrebbero concordemente condannato.