Si può essere sovversivi chiedendo che le leggi vengano rispettate da chi ci governa (Ennio Flaiano)

lunedì 22 aprile 2013

Lo stiamo perdendo! Ma chi?

Davvero difficile elencare tutte le categorie di “traditori” che usurpano un posto tra i parlamentari PD. Forse quelli occulti sono moralmente più riprovevoli di quelli palesi, ma alla prova del voto contano uguale. Non così difficile potrebbe essere identificare i capibanda che albergano dentro e fuori le fila dei parlamentari PD. Sono capibanda sanguinari, che non si fermano davanti a nulla. Espertissimi nell’arte dell’inciucio, a volte, a dispetto della giovane età. Tanto ai primi quanto ai secondi non difetta un ego smisurato, inversamente proporzionale alla capacità di una analisi e proposta politica che non sia a proprio esclusivo tornaconto. Alcuni di loro tacciono o se ne stanno lontani dopo i misfatti dei giorni scorsi, sperando di non dare nell'occhio. Altri guadagnano le luci della ribalta con frasi paradigmatiche di chi non ha la più pallida idea di cosa significhi stare denmtro un partito: «Mi dispiace per Napolitano, per il Pd e per tutti noi, ma ho votato bianca», «Incomprensibile che il Pd non appoggi Stefano Rodotà o non proponga Emma Bonino».

Il (già) segretario Pierluigi Bersani non ne ha imbroccata una, almeno dalle elezioni in poi. Forse non merita l’apologia dello sconfitto, ma sarebbe ingeneroso attribuire solo a lui la responsabilità del disastro accaduto. Certo bisogna riconoscere che sarebbe stato difficile fare di peggio che candidare Franco Marini pur di diventare Presidente del Consiglio, ma anche fare di meglio circondato com’era da oltre 100 criminali politici che non hanno avuto la minima remora a macchiarsi di parricidio, nel segreto dell'urna parlamentare, negando il “nostro” voto a Romano Prodi.

Le primarie sono (state) un importante momento di coinvolgimento dei cittadini. Ma dobbiamo riconoscere che non hanno prodotto il cambiamento che ci si aspettava. Al ringiovanimento anagrafico non ha corrisposto quello politico. Anche noi elettori delle primarie, quando scegliamo, lo dobbiamo fare con molta, molta maggiore avvedutezza.

Il PD non è (ancora) al rigor mortis, ma è sicuramente in arresto cardiaco. Serve un defibrillatore prima che l’encefalogramma politico divenga irreversibilmente piatto. Ma un solo congresso straordinario mi sembrerebbe uno strumento troppo ordinario per affrontare una situazione tanto drammatica. Il problema, se così mi posso esprimere, più che di numeri è di ontologia politica. Prima di contarsi serve dirsi francamente chi vogliamo essere. Perché il “chi è” del PD, in questo momento, non lo sa nessuno. Deputati e senatori che non sanno ricompattarsi nemmeno intorno al nome del padre nobile, non rappresentano più “quel” partito. Ma anche quella base che ha alzato (giustamente) la sua voce più contro l’operazione Marini che il siluramento di Prodi non è molto diversa dai suoi rappresentanti. Il PD nato dall'esperienza dell'Ulivo è una forza politica plurale, riformista solidale, indispensabile alla vita democratica del Paese. Il PD che abbiamo visto in questi giorni è talmente sfigurato da essere irriconoscibile. E temo non serva a nessuno.

Un’atmosfera surriscaldata non è mai un buon viatico per una riflessione politica sui fondamentali di un partito o di un impegno. Certo sono anch’io sconcertato da un possibile governo con Berlusconi. Ma mi permetto di affermare che se il PD capissse chi è oggi e dove vuole andare potrebbe sopravvivere anche ad un simile stato di necessità contro natura. E perfino rafforzarsi.

In caso contrario, lo perderemo. Con o senza governissimo.

martedì 16 aprile 2013

Roberto Ruffilli, le istituzioni come «bene comune», di Fulvio De Giorgi

Fulvio De Giorgi, su Avvenire, ricorda Roberto Ruffilli a 25 anni dalla sua morte per mano delle BR
Venticinque anni fa veniva assassinato dalle Brigate Rosse il professor Roberto Ruffilli, intellettuale cattolico, studioso di storia, da sempre impegnato nel dibattito civile e, in quegli anni, parlamentare della Dc ed esponente politico di primo piano nei lavori per le (fin da allora auspicate) riforme istituzionali. Non si possono dimenticare i tratti della sua figura mite e dolcissima di cristiano, le  sue doti di dialogo, di confronto aperto, infine di amicizia vera: tratti che rimangono indimenticabili per chi lo conobbe. Ma è soprattutto importante oggi - in una fase storica di disprezzo della politica - ricordare Roberto Ruffilli senatore della Repubblica, pensatore politico e uomo di Stato. Egli si inseriva in quella visione della democrazia che si può definire lapiriana e, soprattutto, morotea. In un suo grande discorso all’Assemblea Costituente, il 13 marzo 1947, Aldo Moro aveva parlato di tr pilastri costituzionali: «Questi tre pilastri, sui quali mi pare che posi il nuovo Stato italiano sono: la democrazia, in senso politico, in senso sociale e in senso che potremmo chiamare largamente umano». Se il tema della democrazia politica avvicinava i democratici cristiani ai democratici laici, se il tema della democrazia sociale li avvicinava alla democrazia 'progressiva' delle sinistre marxiste, la democrazia in senso «largamente umano» caratterizzava, in modo peculiare, i cattolici democratici: era la rilettura dell’illuminismo cristiano da Beccaria a Manzoni, attraverso la forza della nonviolenza e della mitezza evangelica (si pensi, solo per fare un esempio, al successivo impegno di La Pira per la pace). Fu quell’umanesimo democratico che, durante il sequestro da parte delle Br, Moro cercò di far intendere nelle sue lettere (e che non fu invece compreso dagli esponenti politici del cosiddetto 'fronte della fermezza') e che emerse pure nell’appello di Paolo VI «agli uomini» delle Br. A Moro e a quell’ideale democratico (spiritualmente montiniano) Ruffilli rimase sempre fedele, testimoniandolo infine con il sacrificio della vita: una morte, cioè, da martire civile, mite e nonviolento, disarmato, inerme, fiducioso nell’uomo. La lezione civile, attualissima, che Ruffilli diede negli anni in cui si impegnò per le riforme istituzionali risiede, forse, in due aspetti congiunti: entrambi fondati su quella visione morotea. Il primo aspetto sta nel considerare le Istituzioni come la massima forma storicamente possibile di 'bene comune': con una tensione etica, cioè, analoga a quella che fu pure di Vittorio Bachelet. Nell’alternativa tra Stato etico (tipico del totalitarismo gentiliano, anche nella sua variante gramsciana del moderno Principe) e Stato guardiano notturno (tipico dell’individualismo liberale, che nel suo empirismo non pone limiti ai 'poteri forti') Ruffilli guardava a un personalismo che, facendo della coscienza personale del cittadino l’istanza superiore, costruisse la casa comune delle Istituzioni con il materiale etico dell’integrazione e della partecipazione democratica: includendo - non in modo amorfo, ma nella ricchezza dei corpi intermedi - tutti i livelli della società, a partire da quello popolare di massa. In questo modo la sussidiarietà era valorizzata nel modo giusto: cioè saldamente inserita nella solidarietà, integrata dunque nei doveri e nelle responsabilità sociali. Un’enfasi monocorde sulla sola sussidiarietà avrebbe infatti chiaramente condotto - sul piano, potremmo dire, della 'costituzione materiale' – ad esiti negativi, aperti a derive clientelari e corruttive e porosi verso il malaffare. L’altro aspetto, anche questo di derivazione morotea (che Ruffilli condivideva con altri intellettuali come Ezio Tarantelli), stava nella convinzione che democrazia politica e democrazia sociale andassero tenute insieme: che infine la giustificazione ultima – in termini di legittimazione etica e storica – delle riforme istituzionali sta nell’offrire uno strumento sociale e democratico più adeguato per conseguire la giustizia sociale, diminuendo le disuguaglianze presenti nella società e redistribuendo in modo più equo i redditi, sostenendo i più deboli, in un contesto di uguaglianza in dignità della persona umana (che cioè, per esempio, reputa 'indegno' che un ricco possa avere cure sanitarie diverse e migliori del povero). Per questa sua grande attualità di riflessione e di proposta, Roberto Ruffilli rimane ancora, per tutti, una figura esemplare di cristiano, di intellettuale e di politico a servizio della democrazia repubblicana.