Si può essere sovversivi chiedendo che le leggi vengano rispettate da chi ci governa (Ennio Flaiano)

martedì 17 agosto 2010

Dei lavelli e dei vasi (da notte).



"Io avrò anche pisciato fuori dal vaso, ma il mio è piccolino invece quello del Presidente è grande, molto grande e l'ha fatta fuori anche lui". Questo il distillato del raffinato “pensiero” politico del deputato del PdL Maurizio Bianconi a commento della nota del Quirinale che, peraltro senza citarlo, chiariva il pensiero del Presidente Napolitano a proposito dell’accusa di tradimento della Costituzione.

Ha sicuramente parlato sotto la dettatura di qualche deficiente, Maurizio Bianconi. Almeno così mi auguro. Per lui e per i suoi elettori, naturalmente.
Ma se anche così non fosse, poco ci sarebbe da scandalizzarsi, in un Paese dove un Ministro in carica comunica alzando il dito medio della mano destra (forse perché, così facendo, evita di dover spiegare ai cittadini contribuenti cosa faccia tutto il giorno al Governo – cosa che lo metterebbe sicuramente in qualche imbarazzo).
E dove due quotidiani di scarsa tiratura riescono a tenere inchiodata l’attenzione dell’opinione pubblica su lavelli e scansie che, acquistati alla periferia di Roma, si vorrebbe a tutti i costi dimostrare siano finiti a Montecarlo (forse perché, così facendo, si evita che i cittadini si interroghino sui reali problemi del Paese e sulla drammatica incapacità del Governo Berlusconi ad occuparsene).

Nell’attesa che il PD (quello vero, non quello panleghista di cui si sente di tanto in tanto vagheggiare sconsideratamente dalle nostre parti) batta un colpo invece di lasciare alla sola Presidente Bindi l’onere di attestarne l’esistenza in vita, prepariamoci ad una difesa preventiva. Quella di don Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, che avendo lamentato come una «concezione padronale dello Stato ha ridotto ministri e politici a “servitori”. Semplici esecutori dei voleri del capo. Quali che siano. Poco importa che il paese vada allo sfascio» finirà sicuramente nel tritacarne dei soliti due giornali(sti) di scarse tirature per fare la fine di Dino Boffo.

venerdì 25 giugno 2010

Pomigliano o l'inaccettabile accordo necessario

Non è una normale partita tra impresa e sindacato quella che si gioca alla FIAT di Pomigliano. Anzi, interpretano entrambi un ruolo secondario. E’ la globalizzazione la star della rappresentazione. Che mostra il suo vero volto. In modo palese. Per la prima volta, in Italia, con tanta ostentazione. E non per l’unica né per l’ultima. Altre fabbriche, altri settori seguiranno quello che si presenta come un percorso obbligato. Non per l’Italia; forse per l’intero occidente.

Il casus belli è presto detto. In un mercato globale come quello dell’auto, dove l’eccesso di capacità produttiva è stimato tra il 30 ed il 40%, una società come la FIAT potrebbe decidere di continuare a produrre un’auto come la Panda in Polonia. Come già oggi sta facendo. Per portare la produzione in Italia e non mandare a spasso i 15.000 lavoratori che, indotto compreso, ruotano attorno a Pomigliano, vuole che i costi di produzione italiani scendano quel tanto che basta da renderli competitivi con quelli polacchi. Perché solo così può reggere la furibonda battaglia dei prezzi che i produttori ormai combattono da tempo. Sotto il profilo industriale il ragionamento non mostra sfilacciamenti.

Non mi preme, in questa sede entrare nei dettagli delle richieste di Marchionne, anche se più d’una appare francamente irricevibile. Ne mi preme ricordare i comportamenti inaccettabili, più volte posti in essere da parte di alcuni lavoratori, che l’accordo vorrebbe sanare e che, un sindacato degno di questo nome, avrebbe stroncato da tempo e autonomamente. Mi premono alcune riflessioni politiche.
1.La globalizzazione economica ci è stata presentata come quella sorta di miracolo che ci avrebbe consentito di acquistare sempre più beni a minor prezzo perché realizzati laddove il costo di produzione è significativamente inferiore al nostro. E lo è grazie ad una manodopera docile, a sindacati inesistenti e a diritti dei lavoratori di la da venire. Pomigliano svela invece un triplo inganno: a) per acquistare beni servono soldi e per averli, il normale cittadino, deve lavorare. b) per continuare a lavorare dobbiamo riappropriarci di settori produttivi, nel frattempo “delocalizzati”, riproducendo in Italia le condizioni di lavoro dei Paesi che hanno ospitato in questi anni le nostre fabbriche. Dobbiamo cioè rinunciare a 50 anni di miglioramento delle nostre condizioni di lavoro. c) Per poter dare lavoro ai nostri operai e impiegati, dobbiamo ridurre sul lastrico migliaia di altre famiglie, in questo caso polacche. In altre parole da questo modello di globalizzazione liberista (nome in codice: competizione globale senza regole) ci perdiamo tutti. Quasi tutti.
2.Il passaggio epocale di cui l’accordo di Pomigliano è la testa di ponte, invoca a gran voce l’indispensabilità di una classe sindacale all’altezza della situazione. Dobbiamo invece registrare un doppio disastro: quello di un sindacato ormai scendiletto delle controparti, cui si oppone un altro sindacato che sembra geneticamente impossibilitato a pronunciare la parola trattativa. Ne consegue una incapacità complessiva a garantire le condizioni dei lavoratori accompagnandoli all’interno dei nuovi scenari industriali. Lavoratori che, lasciati soli di fronte all’alternativa tra non lavorare e lavorare peggio di prima, non possono che scegliere la seconda. E’ la resa totale del sindacato.
3.Il governo Berlusconi, dilaniato al suo interno da preoccupazioni che nulla hanno a che spartire con la sorte dei lavoratori campani, sembra incapace anche solo di comprendere la gravità di quanto sta accadendo. Sacconi, ministro del Lavoro, si è detto addirittura “soddisfatto” perché Pomigliano “dimostra che da oggi questo Paese è ancora più moderno perché si è adeguato alla competizione”. Tremonti, da par suo, si rallegra perché a Pomigliano si starebbe realizzando un chiaro esempio di “economia sociale di mercato”. Sono esempi paradigmatici, ancorché sconfortanti, dell’abisso che ormai separa questo governo dalle condizioni reali del Paese.

E’ probabile che, nella situazione contingente, tanto l’azienda quanto i sindacati, non abbiano alternative all’accordo. Ed i lavoratori a sottoscriverlo.

Restano però le domande sul dopo. Se è cioè inevitabile che episodi di dumping sociale come quello di Pomigliano siano indispensabili alla sopravvivenza del nostro sistema industriale. Piuttosto che funzionali al modello di globalizzazione imperante. Se può essere considerata crescita quella che peggiora le condizioni sociali, economiche e relazionali delle persone. Quella che invece di far progredire le condizioni di vita nei paesi emergenti, ne comporta le regressione in quelli più avanzati che con i primi si trovano a competere.

Non mi sembrano domande evitabili. In un Paese dove, ringraziando ancora una volta la nostra Costituzione, il lavoro rimane il fondamento della cittadinanza sociale e politica. Dove questa centralità può essere la base di un modello economico alternativo a quello oggi in profonda crisi. Un modello solidale e personalistico. Che riconosca l’esistenza, questa si globale, di diritti vitali degli esseri umani sui quali fondare forme riconosciute di riequilibrio e di redistribuzione che permettano la fruizione universale dei beni economici, a vantaggio dei settori più deboli della società.
Soprattutto non sono domande evitabili per un partito come il PD. Che una maggiore capacità di elaborazione e una più coraggiosa incisività di proposta riporterebbero finalmente al centro del confronto sociale ed economico. Anche alla luce dell’ultima manovra finanziaria, varata in evidente clima disperazione dal governo Berlusconi.

mercoledì 9 giugno 2010

Buone notizie


MILANO—Un teatro, un uomo al pianoforte. È Andrea Bocelli. In platea non c’è nessuno. Il grande tenore è lì per registrare un video-messaggio dedicato a un missionario, padre Rick, che lavora ad Haiti. «Allora — dice —, per questa occasione ho pensato di raccontarvi una piccola storia ». E parla di una giovane donna che arriva in ospedale con dolori che fanno pensare a un problema di appendicite. Lei non sa di essere incinta. «I dottori le misero del ghiaccio sulla pancia—racconta Bocelli — e poi, quando il trattamento era finito, le dissero che avrebbe fatto meglio ad abortire. Che era la soluzione migliore, perché il bambino sarebbe venuto al mondo con qualche forma di disabilità. Ma la giovane e coraggiosa sposa decise di non interrompere la gravidanza e il bambino nacque ». E poi: «Quella signora era mia madre, e il bambino ero io». Quindi aggiunge: «Sarò di parte, ma posso dirvi che è stata la scelta giusta e spero che questo possa incoraggiare altre madri che magari si trovano in momenti di vita complicati ma vogliono salvare la vita dei loro bambini». Alla fine accenna un canto: «Voglio vivere così... col sole in fronte...». Bocelli è nato con una forma di glaucoma congenito che lo ha reso quasi cieco.


A volte sembra che una notizia sia tale solo se è negativa. Al punto che rischiamo di non rallegrarci per quelle veramente positive.
Grazie ad Andrea Bocelli per averci raccontato una di queste.
E, soprattutto, a sua madre per averla resa raccontabile!

giovedì 3 giugno 2010

Figuracce... costituzionali


Milano, manifestazione per la Costituzione: molta Cgil e poi Anpi, Arci, Casa della Carità, Casa della Cultura, Popolo Viola.
Poco, pochissimo PD.

Varese, Festa della Repubblica: cerimonia in salsa padana con musiche di Bocelli e Paoli a surrogare l'inno nazionale (a quando brani per sax interpretati dal ministro dell’Interno?).
Ma il PD tace.

Sono segnali preoccupanti, di un'atrofia politico - ideale della quale non sento la necessità.

mercoledì 2 giugno 2010

2 Giugno, festa di oggi


Il 2 giugno è la principale festa civile del nostro Paese.
Come la presa della Bastiglia (14 luglio 1789) lo è per i francesi. Come la Dichiarazione di Indipendenza (4 luglio 1776) lo è per gli americani.
Ricorda un periodo molto più recente della storia: il 2 e 3 giugno 1946. Quando avvennero due momenti “unici” nella storia della nazione: il referendum istituzionale indetto a suffragio universale e l’elezione dei 556 componenti l’Assemblea Costituente. Il primo sancì la scelta degli italiani per la forma repubblicana, chiudendo così 85 anni di monarchia. Il secondo diede vita all’assemblea che ci “regalò” la carta costituzionale.
Più del 25 aprile, che ne rappresenta in qualche modo la condizione necessaria, il 2 giugno è un momento di unità che dovrebbe superare differenze di ogni tipo.

Mi è quindi particolarmente spiacevole dover rimarcare assenze ingombranti alle celebrazioni di oggi. Soprattutto se gli assenti non hanno perso occasione per evidenziare la loro presenza alle recenti celebrazioni del 25 aprile. Una contradictio in terminis. Capace di gettare una luce sinistra su progetti di federalismo, peraltro mai sufficientemente circostanziati.

Mai come in questo periodo di palese crisi economica il Paese necessiterebbe di forze politiche capaci di far prevalere ciò che unisce su quanto divide. Pur nell’assoluto rispetto del ruolo loro affidato dagli elettori.
Condivido il richiamo alle parole pronunciate il 2 giugno 2005 dall’allora Presidente Ciampi: “Affrontiamo, confrontandoci, i problemi veri del Paese con la volontà di arrivare a soluzioni condivise. E traduciamole in atti concreti”. Parole che mi sembra trovino autorevole eco in quelle pronunciate ieri dal Presidente Napolitano: “Stiamo attraversando, nel mondo e in particolar modo in Europa, una crisi difficile : occorre dunque un grande sforzo, fatto anche di sacrifici, per aprire all'Italia una prospettiva di sviluppo più sicuro e più forte. Per crescere di più e meglio, assicurando maggiore benessere a quanti sono rimasti più indietro, l'Italia deve crescere tutta, al Nord e al Sud. Il confronto tra le opposte parti politiche deve concorrere al raggiungimento di questi risultati, e non produrre solo conflitto, soltanto scontro fine a sé stesso”.

Moniti simili, pronunciati da uomini con storie e sensibilità politiche differenti. Parole che, mi auguro, possano trovare seguito anche a Saronno.
Perché, anche per i saronnesi, il 2 giugno non sia solo il ricordo di un fatto ormai lontano.

lunedì 31 maggio 2010

Caino, dov'è tuo fratello?

Si chiamava "Freedom Flottilla". Portava 700 pacifisti, giornalisti, personalità religiose e politiche provenienti da tutto il mondo verso Gaza. Pacifisti appartenenti a organizzazioni non governative, al mondo del volontariato e della solidarietà, che volevano rompere l'assedio e l'embargo sulla popolazione di Gaza e chiedevano di poter portare aiuto a queste persone. "Il blocco degli alimenti è totale" ha dichiatato il parroco di Gaza, padre Jorghe, a Pax Christi International, che con la comunità palestinese chiede non solo solidarietà, ma giustizia e coraggio nella denuncia.

Israele ha commeso un crimine orrendo assaltando le navi che volevano attraccare al porto di Gaza per portare aiuto e uccidendo 10 persone. Soprattutto un crimine inutile. Violenza gratuita. In totale spregio al valore della vita umana. Esattamente come i terroristi dell'integralismo islamico quando si fanno esplodere sugli autobus; nei supermercati; nelle strade affollate. E nulla cambia il sospetto che su quelle navi ci potessero essere armi. Infinite erano le possibilità di scoprirlo senza causare un massacro.

"Chiediamo l'immediata liberazione dei pacifisti arrestati, rottura immediata dell'embargo cominciando dagli aiuti che le navi portavano da ogni parte del mondo. E poi sanzioni economiche e un'inchiesta internazionale per un crimine che poteva e doveva essere evitato". (Pax Christi Italia)

"L'assalto alle navi delle Ong è un fatto di assoluta gravità. Israele deve rispondere alla comunità internazionale di quello che è successo. Il sangue versato soffoca le prospettive di pace e minaccia di accendere i fuochi della tensione e dell'odio. Il risarcimento di un fatto così grave può essere ricercato solo, da parte del governo Netanyahu, in un gesto di pace coraggioso, visibile e sincero, un gesto che fino ad oggi non ha saputo né voluto fare".(Pierluigi Bersani)

Nessuno può, in coscienza, affermare che la situazione in Medio Oriente sia di semplice composizione. Non si superano con buone parole odi e diffidenze sedimentate nei decenni. Ne si convertono alla pace in poco tempo generazioni che hanno visto solo guerra. Da una parte e dall'altra.

Ma al popolo della Bibbia non sfuggirà sicuramente la tremenda domanda di Dio: "Caino, dov'è tuo fratello?"

sabato 29 maggio 2010

La pancia, il cuore e la ragione

Se c’è una forza politica che sta condizionando negativamente la politica contingente, questa è la Lega Nord.
Così come se c’è un reale vincitore delle passate elezioni regionali, questi è la Lega Nord.
Lo è perché ha risentito meno di altri partiti dell’aumentato astensionismo. Perché è ormai il primo partito nei comuni sotto i 15.000 abitanti (nei quali vive il 50% dei cittadini del nord). Perché cresce più rapidamente di tutti nei comuni sopra i 15.000. Perché ha “conquistato” il Veneto e il Piemonte. Perché ha iniziato “l’invasione” di zone del Paese tradizionalmente fedeli ad altri orientamenti. Soprattutto perché, parallelamente al consenso numerico, cresce un consenso sostanziale alle sue proposte. E, più ancora, alla sua visione della società. Non siamo cioè di fronte alla sola catalisi di voti di protesta o in libera uscita. In questo scenario, il PdL è il lato perdente dello schieramento vincitore.

Prima che l’oggi di un governo ormai votato ai disastri seriali rubi definitivamente la scena, questo quadro sintetico credo meriti qualche riflessione. Perché arrendersi allo sdegno per le venature xenofobe e discriminatorie della Lega, potrebbe rivelarsi rinuncia consolatoria, ma pericolosa. Un partito come il PD deve assumersi la responsabilità di proposte autenticamente alternative, che vadano alla radice dei problemi.

“La Lega vince perché parla alla pancia della gente”. Questa è ormai un’affermazione utilizzata da commentatori, sociologi e politologi. Può quindi essere utile domandarsi come mai ci si tanta gente desiderosa di “ascoltare” con la pancia. Perché ciò significa non porsi il problema della sostenibilità razionale del messaggio ricevuto, ma cercare rassicurazione in quel messaggio. Significa rifiutare risposte che diano risultati domani, ma chiedano sacrifici oggi. Significa volere una risposta immediata a ogni costo, senza domandarsi se sia reale, coerente con la dimensione del problema.

Due esempi.
La visione localistica che salva dai timori della globalizzazione.
La globalizzazione basata sul profitto, è interdipendenza tra sistemi economici. E’ progressivo spostamento del baricentro dello sviluppo a oriente. E’ sofferenza delle economie occidentali che si confrontano con Cina, India, Brasile. Non si conoscono modelli che promettano un riequilibrio in pochi mesi o pochi anni. Il problema, al momento, si presenta insolubile. Appare troppo grande, complesso. Preoccupa, terrorizza perfino.
L'adozione di una prospettiva localistica ne consente la frammentazione, la riduzione a una dimensione che lo fa apparire dominabile. Quindi riduce l’ansia, infonde serenità, normalità, sicurezza. Poco importa che le soluzioni individuate (dazi doganali, devolution, federalismo dai contenuti ignoti) scontino una totale incoerenza rispetto alla dimensione reale dei problemi. Soprattutto in un mondo dove «i governi seri non possono offrire neppure certezze, dovendo concedere libertà a ‘forze di mercato’ di cui è nota la mobilità e l'imprevedibilità” (Zygmunt Bauman).
Abitiamo un mondo dove la speculazione internazionale può mandare in bancarotta uno stato sovrano come la Grecia. Puntare al Portogallo, alla Spagna, all’Italia. Dove banche d’affari e agenzie di rating possono sconvolgere l’economia di un continente. La scelta del localismo, del “territorio”, non affronta alcuno di questi problemi, li nasconde dietro espressioni quali “padroni in casa nostra”. Prive di significato razionale in un contesto globale, ma emotivamente efficaci.

Il conflitto orizzontale.
La storia politica del novecento è segnata da tensioni sociali verticali, cioè fra differenti classi della società: dal conflitto di classe permanente della visione marxista, alla predilezione per i bisogni degli “ultimi” di quella cattolica. Il maggiore livello di benessere raggiunto, modifica ora i termini del problema e la recente crisi economica li amplifica.
Per la Lega, obiettivo primario non è più migliorare il tenore di vita proprio e dei propri figli, ma difenderlo da attacchi esterni. I primi obiettivi identificati dal partito di Bossi furono infatti i meridionali, poi rimpiazzati “dall’Europa”. Oggi sono gli extracomunitari.
E’ una costruzione del “noi” politico basato su un processo di chiusura della società piuttosto che su una visione inclusiva. E’ una logica che non può tenere conto del valore del bene comune; tantomeno a livello nazionale.
E’ un’idea, quindi, inconciliabile sia con la Dottrina sociale della Chiesa, sia con una visione laica basata su pari diritti ed opportunità. Ma è premiante in una società che sembra rinunciare ai valori di persona, comunità e collettività preferendo quello di individuo che basta a se stesso. Ancora una volta senza chiedersi quanto tutto ciò possa risolvere problemi reali, piuttosto che crearne di nuovi.

Riconoscere la complessità del fenomeno Lega non significa affatto condividerne analisi e proposte, ma partire dalle cause che inducono molti elettori a votarla, per avanzare proposte alternative. Convinti che, a non-risposte che parlano alla pancia, gli italiani preferirebbero risposte vere ed efficaci che parlano al cuore e alla ragione.

Questa è la sfida che il PD ha di fronte a se.