«Il tempo delle decisioni di emergenza dovrebbe essere finito. La priorità deve ora essere la crescita», così, nei giorni scorsi, J. M. Barroso, presidente della Commissione Europea.
Potrebbe apparire un’affermazione tranquillizzante, ancorché nella prima parte Barroso utilizza prudentemente il condizionale lasciando intendere la necessità di conferme nei prossimi mesi. Rischia però di esserlo meno nella seconda dove l’uso l’indicativo sembra affidare alla sola crescita economica le sorti del nostro futuro.
“Looking to 2060: long-term global growth prospects” è il titolo di uno studio OCSE, (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, con sede a Parigi) pubblicato nelle scorse settimane, che per il nostro Paese prevede una crescita media del PIL pari all’1,4% nei prossimi 50 anni. Addirittura peggio per la Germania, con un 1,1%. Lo stesso report prevede forti rallentamenti anche nella crescita delle economie emergenti: il Pil della Cina crescerà solo del 4%, quello dell'India del 5,1%, quello del Brasile del 2,8%, quello della Russia dell'1,9%. Una situazione a dir poco preoccupante per un modello economico come quello capitalista che, se non cresce di almeno il 3% all’anno, prima o poi implode. E infatti ci siamo andati vicini.
In questa situazione, potenzialmente generatrice di forti tensioni internazionali oltreché interne, la provvidenziale scelta dell’Europa di dotarsi di una moneta unica, mostra una valenza di stabilità che va molto al di la dell’aspetto puramente monetario, ma investe direttamente i rapporti tra gli stati stessi. Molte perplessità suscita invece il cd “Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione economica e monetaria”, sottoscritto lo scorso anno da 25 dei 27 paesi dell’Unione Europea. Due gli aspetti maggiormente criticabili. L’elevazione a norma costituzionale del vincolo di pareggio di bilancio e l’impegno a ridurre del 5% all’anno il rapporto tra debito e PIL fino a portarlo al 60%. Il primo è fortemente criticato da molti premi Nobel per l’economia, tra essi Paul Krugman, che lo considerano un potenziale fattore di distruzione dello stato sociale. Il secondo si presenta come un impegno non realistico, soprattutto per Paesi come l’Italia che oggi hanno un rapporto debito/PIL al 120%, anche alla luce sia della recessione che attraversa gran parte dell’Europa che dei tassi di crescita previsti dal rapporto OCSE.
Sempre l’OCSE, lo scorso anno, ha presentato il rapporto "Divided we stand: Why inequality keeps rising" dal qual emerge con chiarezza l’enorme aumento della disuguaglianza nei Paesi sviluppati nel corso degli ultimi 30 anni, con forte accelerazione negli ultimi 10 soprattutto in Italia dove la differenza di reddito tra il 10% più ricco della popolazione ed il 10% dei meno abbienti è ormai di 10 a 1! Allo stesso tempo, aggiunge OCSE, “le aliquote marginali d’imposta sui redditi più alti si sono quasi dimezzate passando dal 72% nel 1981 al 43% nel 2010”. Tra le molte catastrofiche eredità del ventennio Berlusconi-Bossi-Maroni questa è una delle più socialmente esplosive e maggiormente sottovalutate.
In una campagna elettorale che inizia lasciando intendere di non aver imparato nulla dalle precedenti, tanto sembra ruotare attorno alle facezie del più ricco d’Italia piuttosto che ai problemi dei molti impoveriti dal succedersi dei suoi governi, è necessario cogliere quei pochi messaggi significativi fino ad ora emersi. Quando Bersani lancia lo slogan “l’Italia giusta” e afferma che il prossimo governo di centrosinistra dovrà “prendere i soldi dove sono per metterli dove vanno messi”, lancia un chiaro messaggio di riequilibrio delle disparità per altro in linea con le raccomandazioni del rapporto OCSE. Del resto, se c’è una critica che sicuramente il governo Monti si merita, è quella di essere intervenuto per evitare il baratro berlusconiano senza troppo badare alla diversa capacità contributiva dei singoli cittadini e delle loro famiglie. E, come ricordava un profeta del calibro di Lorenzo Milani, “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”. Concetto, questo, ripreso autorevolmente da Giorgio Napolitano, nel suo discorso di fine anno, quando ha affermato essere giunto il momento che «la questione sociale sia il cuore della politica».
Ai temi della riduzione delle disparità, della preferenza per un modello economico non più basato solamente su una crescita illimitata, sulla massimizzazione del profitto e del consumo in un’ottica individualistica ed egoistica, il centrosinistra ed il PD in particolare dedicheranno grande attenzione nel programma per il nuovo Governo. In questo trovandosi in piena sintonia con quanto affermato 50 anni fa dal Concilio Vaticano II che, nel documento “Gaudium et Spes” invita credenti e non a «impegnarsi con ogni sforzo affinché le ingenti disparità economiche che portano con se discriminazione nei diritti individuali e nelle condizioni sociali, vengano rimosse quanto più rapidamente possibile». Può essere una riflessione utile, tanto per chi tra i credenti (e non solo) vorrà esercitare il proprio diritto di voto, quanto per coloro che si ritenessero chiamati ad orientarlo.
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