Si può essere sovversivi chiedendo che le leggi vengano rispettate da chi ci governa (Ennio Flaiano)

martedì 16 aprile 2013

Roberto Ruffilli, le istituzioni come «bene comune», di Fulvio De Giorgi

Fulvio De Giorgi, su Avvenire, ricorda Roberto Ruffilli a 25 anni dalla sua morte per mano delle BR
Venticinque anni fa veniva assassinato dalle Brigate Rosse il professor Roberto Ruffilli, intellettuale cattolico, studioso di storia, da sempre impegnato nel dibattito civile e, in quegli anni, parlamentare della Dc ed esponente politico di primo piano nei lavori per le (fin da allora auspicate) riforme istituzionali. Non si possono dimenticare i tratti della sua figura mite e dolcissima di cristiano, le  sue doti di dialogo, di confronto aperto, infine di amicizia vera: tratti che rimangono indimenticabili per chi lo conobbe. Ma è soprattutto importante oggi - in una fase storica di disprezzo della politica - ricordare Roberto Ruffilli senatore della Repubblica, pensatore politico e uomo di Stato. Egli si inseriva in quella visione della democrazia che si può definire lapiriana e, soprattutto, morotea. In un suo grande discorso all’Assemblea Costituente, il 13 marzo 1947, Aldo Moro aveva parlato di tr pilastri costituzionali: «Questi tre pilastri, sui quali mi pare che posi il nuovo Stato italiano sono: la democrazia, in senso politico, in senso sociale e in senso che potremmo chiamare largamente umano». Se il tema della democrazia politica avvicinava i democratici cristiani ai democratici laici, se il tema della democrazia sociale li avvicinava alla democrazia 'progressiva' delle sinistre marxiste, la democrazia in senso «largamente umano» caratterizzava, in modo peculiare, i cattolici democratici: era la rilettura dell’illuminismo cristiano da Beccaria a Manzoni, attraverso la forza della nonviolenza e della mitezza evangelica (si pensi, solo per fare un esempio, al successivo impegno di La Pira per la pace). Fu quell’umanesimo democratico che, durante il sequestro da parte delle Br, Moro cercò di far intendere nelle sue lettere (e che non fu invece compreso dagli esponenti politici del cosiddetto 'fronte della fermezza') e che emerse pure nell’appello di Paolo VI «agli uomini» delle Br. A Moro e a quell’ideale democratico (spiritualmente montiniano) Ruffilli rimase sempre fedele, testimoniandolo infine con il sacrificio della vita: una morte, cioè, da martire civile, mite e nonviolento, disarmato, inerme, fiducioso nell’uomo. La lezione civile, attualissima, che Ruffilli diede negli anni in cui si impegnò per le riforme istituzionali risiede, forse, in due aspetti congiunti: entrambi fondati su quella visione morotea. Il primo aspetto sta nel considerare le Istituzioni come la massima forma storicamente possibile di 'bene comune': con una tensione etica, cioè, analoga a quella che fu pure di Vittorio Bachelet. Nell’alternativa tra Stato etico (tipico del totalitarismo gentiliano, anche nella sua variante gramsciana del moderno Principe) e Stato guardiano notturno (tipico dell’individualismo liberale, che nel suo empirismo non pone limiti ai 'poteri forti') Ruffilli guardava a un personalismo che, facendo della coscienza personale del cittadino l’istanza superiore, costruisse la casa comune delle Istituzioni con il materiale etico dell’integrazione e della partecipazione democratica: includendo - non in modo amorfo, ma nella ricchezza dei corpi intermedi - tutti i livelli della società, a partire da quello popolare di massa. In questo modo la sussidiarietà era valorizzata nel modo giusto: cioè saldamente inserita nella solidarietà, integrata dunque nei doveri e nelle responsabilità sociali. Un’enfasi monocorde sulla sola sussidiarietà avrebbe infatti chiaramente condotto - sul piano, potremmo dire, della 'costituzione materiale' – ad esiti negativi, aperti a derive clientelari e corruttive e porosi verso il malaffare. L’altro aspetto, anche questo di derivazione morotea (che Ruffilli condivideva con altri intellettuali come Ezio Tarantelli), stava nella convinzione che democrazia politica e democrazia sociale andassero tenute insieme: che infine la giustificazione ultima – in termini di legittimazione etica e storica – delle riforme istituzionali sta nell’offrire uno strumento sociale e democratico più adeguato per conseguire la giustizia sociale, diminuendo le disuguaglianze presenti nella società e redistribuendo in modo più equo i redditi, sostenendo i più deboli, in un contesto di uguaglianza in dignità della persona umana (che cioè, per esempio, reputa 'indegno' che un ricco possa avere cure sanitarie diverse e migliori del povero). Per questa sua grande attualità di riflessione e di proposta, Roberto Ruffilli rimane ancora, per tutti, una figura esemplare di cristiano, di intellettuale e di politico a servizio della democrazia repubblicana.

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