Si può essere sovversivi chiedendo che le leggi vengano rispettate da chi ci governa (Ennio Flaiano)

venerdì 25 giugno 2010

Pomigliano o l'inaccettabile accordo necessario

Non è una normale partita tra impresa e sindacato quella che si gioca alla FIAT di Pomigliano. Anzi, interpretano entrambi un ruolo secondario. E’ la globalizzazione la star della rappresentazione. Che mostra il suo vero volto. In modo palese. Per la prima volta, in Italia, con tanta ostentazione. E non per l’unica né per l’ultima. Altre fabbriche, altri settori seguiranno quello che si presenta come un percorso obbligato. Non per l’Italia; forse per l’intero occidente.

Il casus belli è presto detto. In un mercato globale come quello dell’auto, dove l’eccesso di capacità produttiva è stimato tra il 30 ed il 40%, una società come la FIAT potrebbe decidere di continuare a produrre un’auto come la Panda in Polonia. Come già oggi sta facendo. Per portare la produzione in Italia e non mandare a spasso i 15.000 lavoratori che, indotto compreso, ruotano attorno a Pomigliano, vuole che i costi di produzione italiani scendano quel tanto che basta da renderli competitivi con quelli polacchi. Perché solo così può reggere la furibonda battaglia dei prezzi che i produttori ormai combattono da tempo. Sotto il profilo industriale il ragionamento non mostra sfilacciamenti.

Non mi preme, in questa sede entrare nei dettagli delle richieste di Marchionne, anche se più d’una appare francamente irricevibile. Ne mi preme ricordare i comportamenti inaccettabili, più volte posti in essere da parte di alcuni lavoratori, che l’accordo vorrebbe sanare e che, un sindacato degno di questo nome, avrebbe stroncato da tempo e autonomamente. Mi premono alcune riflessioni politiche.
1.La globalizzazione economica ci è stata presentata come quella sorta di miracolo che ci avrebbe consentito di acquistare sempre più beni a minor prezzo perché realizzati laddove il costo di produzione è significativamente inferiore al nostro. E lo è grazie ad una manodopera docile, a sindacati inesistenti e a diritti dei lavoratori di la da venire. Pomigliano svela invece un triplo inganno: a) per acquistare beni servono soldi e per averli, il normale cittadino, deve lavorare. b) per continuare a lavorare dobbiamo riappropriarci di settori produttivi, nel frattempo “delocalizzati”, riproducendo in Italia le condizioni di lavoro dei Paesi che hanno ospitato in questi anni le nostre fabbriche. Dobbiamo cioè rinunciare a 50 anni di miglioramento delle nostre condizioni di lavoro. c) Per poter dare lavoro ai nostri operai e impiegati, dobbiamo ridurre sul lastrico migliaia di altre famiglie, in questo caso polacche. In altre parole da questo modello di globalizzazione liberista (nome in codice: competizione globale senza regole) ci perdiamo tutti. Quasi tutti.
2.Il passaggio epocale di cui l’accordo di Pomigliano è la testa di ponte, invoca a gran voce l’indispensabilità di una classe sindacale all’altezza della situazione. Dobbiamo invece registrare un doppio disastro: quello di un sindacato ormai scendiletto delle controparti, cui si oppone un altro sindacato che sembra geneticamente impossibilitato a pronunciare la parola trattativa. Ne consegue una incapacità complessiva a garantire le condizioni dei lavoratori accompagnandoli all’interno dei nuovi scenari industriali. Lavoratori che, lasciati soli di fronte all’alternativa tra non lavorare e lavorare peggio di prima, non possono che scegliere la seconda. E’ la resa totale del sindacato.
3.Il governo Berlusconi, dilaniato al suo interno da preoccupazioni che nulla hanno a che spartire con la sorte dei lavoratori campani, sembra incapace anche solo di comprendere la gravità di quanto sta accadendo. Sacconi, ministro del Lavoro, si è detto addirittura “soddisfatto” perché Pomigliano “dimostra che da oggi questo Paese è ancora più moderno perché si è adeguato alla competizione”. Tremonti, da par suo, si rallegra perché a Pomigliano si starebbe realizzando un chiaro esempio di “economia sociale di mercato”. Sono esempi paradigmatici, ancorché sconfortanti, dell’abisso che ormai separa questo governo dalle condizioni reali del Paese.

E’ probabile che, nella situazione contingente, tanto l’azienda quanto i sindacati, non abbiano alternative all’accordo. Ed i lavoratori a sottoscriverlo.

Restano però le domande sul dopo. Se è cioè inevitabile che episodi di dumping sociale come quello di Pomigliano siano indispensabili alla sopravvivenza del nostro sistema industriale. Piuttosto che funzionali al modello di globalizzazione imperante. Se può essere considerata crescita quella che peggiora le condizioni sociali, economiche e relazionali delle persone. Quella che invece di far progredire le condizioni di vita nei paesi emergenti, ne comporta le regressione in quelli più avanzati che con i primi si trovano a competere.

Non mi sembrano domande evitabili. In un Paese dove, ringraziando ancora una volta la nostra Costituzione, il lavoro rimane il fondamento della cittadinanza sociale e politica. Dove questa centralità può essere la base di un modello economico alternativo a quello oggi in profonda crisi. Un modello solidale e personalistico. Che riconosca l’esistenza, questa si globale, di diritti vitali degli esseri umani sui quali fondare forme riconosciute di riequilibrio e di redistribuzione che permettano la fruizione universale dei beni economici, a vantaggio dei settori più deboli della società.
Soprattutto non sono domande evitabili per un partito come il PD. Che una maggiore capacità di elaborazione e una più coraggiosa incisività di proposta riporterebbero finalmente al centro del confronto sociale ed economico. Anche alla luce dell’ultima manovra finanziaria, varata in evidente clima disperazione dal governo Berlusconi.

mercoledì 9 giugno 2010

Buone notizie


MILANO—Un teatro, un uomo al pianoforte. È Andrea Bocelli. In platea non c’è nessuno. Il grande tenore è lì per registrare un video-messaggio dedicato a un missionario, padre Rick, che lavora ad Haiti. «Allora — dice —, per questa occasione ho pensato di raccontarvi una piccola storia ». E parla di una giovane donna che arriva in ospedale con dolori che fanno pensare a un problema di appendicite. Lei non sa di essere incinta. «I dottori le misero del ghiaccio sulla pancia—racconta Bocelli — e poi, quando il trattamento era finito, le dissero che avrebbe fatto meglio ad abortire. Che era la soluzione migliore, perché il bambino sarebbe venuto al mondo con qualche forma di disabilità. Ma la giovane e coraggiosa sposa decise di non interrompere la gravidanza e il bambino nacque ». E poi: «Quella signora era mia madre, e il bambino ero io». Quindi aggiunge: «Sarò di parte, ma posso dirvi che è stata la scelta giusta e spero che questo possa incoraggiare altre madri che magari si trovano in momenti di vita complicati ma vogliono salvare la vita dei loro bambini». Alla fine accenna un canto: «Voglio vivere così... col sole in fronte...». Bocelli è nato con una forma di glaucoma congenito che lo ha reso quasi cieco.


A volte sembra che una notizia sia tale solo se è negativa. Al punto che rischiamo di non rallegrarci per quelle veramente positive.
Grazie ad Andrea Bocelli per averci raccontato una di queste.
E, soprattutto, a sua madre per averla resa raccontabile!

giovedì 3 giugno 2010

Figuracce... costituzionali


Milano, manifestazione per la Costituzione: molta Cgil e poi Anpi, Arci, Casa della Carità, Casa della Cultura, Popolo Viola.
Poco, pochissimo PD.

Varese, Festa della Repubblica: cerimonia in salsa padana con musiche di Bocelli e Paoli a surrogare l'inno nazionale (a quando brani per sax interpretati dal ministro dell’Interno?).
Ma il PD tace.

Sono segnali preoccupanti, di un'atrofia politico - ideale della quale non sento la necessità.

mercoledì 2 giugno 2010

2 Giugno, festa di oggi


Il 2 giugno è la principale festa civile del nostro Paese.
Come la presa della Bastiglia (14 luglio 1789) lo è per i francesi. Come la Dichiarazione di Indipendenza (4 luglio 1776) lo è per gli americani.
Ricorda un periodo molto più recente della storia: il 2 e 3 giugno 1946. Quando avvennero due momenti “unici” nella storia della nazione: il referendum istituzionale indetto a suffragio universale e l’elezione dei 556 componenti l’Assemblea Costituente. Il primo sancì la scelta degli italiani per la forma repubblicana, chiudendo così 85 anni di monarchia. Il secondo diede vita all’assemblea che ci “regalò” la carta costituzionale.
Più del 25 aprile, che ne rappresenta in qualche modo la condizione necessaria, il 2 giugno è un momento di unità che dovrebbe superare differenze di ogni tipo.

Mi è quindi particolarmente spiacevole dover rimarcare assenze ingombranti alle celebrazioni di oggi. Soprattutto se gli assenti non hanno perso occasione per evidenziare la loro presenza alle recenti celebrazioni del 25 aprile. Una contradictio in terminis. Capace di gettare una luce sinistra su progetti di federalismo, peraltro mai sufficientemente circostanziati.

Mai come in questo periodo di palese crisi economica il Paese necessiterebbe di forze politiche capaci di far prevalere ciò che unisce su quanto divide. Pur nell’assoluto rispetto del ruolo loro affidato dagli elettori.
Condivido il richiamo alle parole pronunciate il 2 giugno 2005 dall’allora Presidente Ciampi: “Affrontiamo, confrontandoci, i problemi veri del Paese con la volontà di arrivare a soluzioni condivise. E traduciamole in atti concreti”. Parole che mi sembra trovino autorevole eco in quelle pronunciate ieri dal Presidente Napolitano: “Stiamo attraversando, nel mondo e in particolar modo in Europa, una crisi difficile : occorre dunque un grande sforzo, fatto anche di sacrifici, per aprire all'Italia una prospettiva di sviluppo più sicuro e più forte. Per crescere di più e meglio, assicurando maggiore benessere a quanti sono rimasti più indietro, l'Italia deve crescere tutta, al Nord e al Sud. Il confronto tra le opposte parti politiche deve concorrere al raggiungimento di questi risultati, e non produrre solo conflitto, soltanto scontro fine a sé stesso”.

Moniti simili, pronunciati da uomini con storie e sensibilità politiche differenti. Parole che, mi auguro, possano trovare seguito anche a Saronno.
Perché, anche per i saronnesi, il 2 giugno non sia solo il ricordo di un fatto ormai lontano.